La venerazione di San Giuseppe
I tradizionali riti religiosi che accompagnano la festività di San Giuseppe ad Orsomarso, si arricchiscono di manifestazioni che abbracciano aspetti economici e di costume che richiamano alla memoria alcune delle manifestazioni più tipiche delle società agricole e pastorali. Non potrebbero essere interpretati diversamente, infatti, le complesse manifestazioni che si intrecciano fra momenti di intensa spiritualità ed aspetti più specificamente profani e che hanno, tutti insieme, come comune denominatore il culto del padre putativo di Gesù profondamente sentito e radicato in questa comunità fin dal medioevo. Ma andiamo brevemente a ripercorrere quelle che sono le manifestazioni che la tradizione ha consegnato alla comunità orsomarsese e che, nonostante le oggettive difficoltà connesse con l’evoluzione dei tempi, continuano a mantenersi vive e sentite da parte di molti anziani e anche giovani del paese. Esse precedono e seguono la data che il calendario religioso assegna alla celebrazione della festività di San Giuseppe. Innanzitutto parliamo dei tradizionali "falò" in onore del santo e la cui origine non solo si perde nella notte dei tempi ma rimanda alle radici stesse di una società contadina legata indissolubilmente ai ritmi lenti delle stagioni dell’anno. Ogni anno fervono i preparativi che coinvolgono tutti, giovani, donne e anziani; accanto all'allestimento e all'accensione dei falò che avviene la sera della vigilia di San Giuseppe, vi è anche l'organizzazione dei cosiddetti "Mmiti", gli inviti, oltre alla preparazione del pane che viene poi distribuito al termine della funzione religiosa. Ma non è casuale che questo avvenimento che riunisce tutta la popolazione, si svolga tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera. Sicuramente si tratta di un rito antichissimo, in uso già in epoca pre-cristiana: un "rito di passaggio" che segnava il nuovo inizio dopo la stagione invernale. Un "rito del fuoco", di purificazione e rinascita verso una nuova stagione che doveva essere benigna e fornire abbondanza di raccolti e prosperità per l'intera comunità. In questo senso, la tradizione dei "Mmiti", aveva una funzione bene augurante; mangiando in abbondanza cibi che comprendevano tutti i prodotti della terra, dalla pasta fatta in casa, alle fave, piselli, ceci, lenticchie, cicerchie conservate dal raccolto dell’anno precedente, si ostentava ricchezza e benessere, quasi un volere esorcizzare e allontanare i pericoli sempre incombenti di carestie e miseria. Come spesso è accaduto, il cristianesimo si è inserito nel solco della tradizione, innestando su di essa le festività del calendario liturgico. Ecco allora che "la festa della primavera" o il rito del fuoco, è diventato la "festa del falò e dei "Mmiti di San Giuseppe", in una sinergia perfetta che non ha creato alcun trauma. Ma al di là di considerazioni di natura antropologica, quello che colpisce è l'atmosfera di festa e di partecipazione che si respira ogni anno, che chiama a raccolta tutta la comunità. Quasi a volere lanciare sempre di nuovo un segnale e una volontà di rinnovamento e un augurio per una stagione positiva e di prosperità. Fino a non molto tempo fa, al di là degli aspetti immediati delle varie manifestazioni rituali alle quali abbiamo brevemente fatto cenno, non si conosceva quasi niente rispetto ai collegamenti con il culto vero e proprio del santo per come si era sviluppato nella chiesa locale anche a livello dell’edificazione di cappelle, altari e delle immagini iconografiche ancora oggi esistenti. Dopo le prime ricerche sistematiche condotte nelle carte di quello che rimane dell’archivio parrocchiale di Orsomarso, oltre a varie interessantissime notizie sulle vicende delle due chiese, di San Giovanni Battista e del Santissimo Salvatore e delle numerose cappelle filiali, abbiamo scoperto particolari che sicuramente gettano una luce nuova sulla venerazione di San Giuseppe e sui riti collegati. Così, dai verbali delle "visite pastorali" dei vescovi di Cassano, apprendiamo che ai primi del ‘700 nell’altare della chiesa di San Giovanni Battista dedicato a San Giuseppe, era eretta anche una confraternita di laici che si dedicava alla cura delle varie esigenze connesse con il complesso dei riti dedicati al santo. Le risorse del sodalizio provenivano unicamente dalle elemosine e dalle questue che i "confrati" erano autorizzati a fare e che giustifica ancora oggi, l’uso di girare per il paese a chiedere offerte in denaro, di olio e legna (fino a qualche decennio fa) da utilizzare per l’organizzazione e l’allestimento del falò e dei "mmiti". Un culto molto vivo e radicato, quindi, sempre rinnovato nel corso dei tempi come dimostrano la statua che si conserva nella parrocchiale di S. Giovanni Battista, risalente al XVI secolo e quella custodita nel cappellone che fu edificato nella prima metà dell’Ottocento nel lato sinistro della chiesa del SS. Salvatore.
a cura di Pio G. Sangiovanni
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