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Shoah, rito elitario e coscienza comune europea

SHOAH - Quale può essere il ruolo giocato dalla memoria dell'Olocausto nella costruzione dell'identità europea? E come deve essere attuata per diventare patrimonio di tutti, soprattutto in un momento in cui lo Stato israeliano appare come una realtà così diversa dalle altre ma pur sempre terreno di incontro tra Occidente e Oriente?

Proviamo ad immaginare di non avere più nessuno dei nostri cari. Che da un giorno all'altro sparisca nel nulla l'intera popolazione della nostra città, che nove decimi della popolazione del nostro paese venga violentemente annientata. Proviamo ad immaginare di perdere, da un momento all'altro, i nostri parenti più stretti, i fratelli e le sorelle, i genitori, i nonni e gli zii; di perdere tutti insieme gli amici vicini e lontani, di non avere con chi dividere il dolore, lontani dalla casa, espulsi dal lavoro, braccati e soli con un'angoscia senza nome e che alla fine non ci siano nemmeno i cimiteri dove poter piangere i nostri cari.

Proviamo a pensare questo ed altro, potremmo forse in parte comprendere cosa è stato il genocidio nazista per chi l'ha subito, quale ferita abbia rappresentato nella coscienza dei sopravvissuti, quale dramma interno esso abbia costituito per chi, salvatosi, porta il fardello per chi non c'è più, consumato dagli incubi e da un senso di colpa lacerante per quanto infinitamente irrazionale. Immaginiamo che per il prolungamento della nostra sopravvivenza, di qualche giorno o mese, qualcun altro sia morto prima, che per una selezione qualcun altro è perito nelle camere predisposte alla distruzione finale, che per ogni lavoro utile al nemico, come chimico o scienziato, un altro uomo senza volto sia stato anticipatamente inserito nel numero previsto dei morti e degli uccisi ogni giorno di ogni mese.

Proviamo ad immaginare e forse potremmo capire cosa è stato veramente il ritorno alla vita di chi ha fatto l'esperienza della deportazione e dei campi. Forse allora percepiremmo nella sua intensità la violenza di chi oggi vorrebbe colpevolizzare le vittime per un passato che non passa, perché si rifiutano di dimenticare, perché vogliono coltivare il ricordo di quel che è stato. Non ci chiederemmo più come mai i diretti interessati di questa immane tragedia, non dimenticano. Ci chiederemmo al contrario come essi abbiano potuto continuare a vivere conservando la fiducia nei vicini, condividere le speranze di un futuro migliore con chi ha finto di non vedere, o non ha voluto guardare. Come abbiano potuto riacquistare la fiducia nel genere umano...

Nella crisi che ha coinvolto le grandi narrazioni ideologiche del Novecento, la memoria della Shoah ha finito per riempire un vuoto identitario e di appartenenza. In nome di una riparazione impossibile agli ebrei si è affidato il ruolo di "officianti" di un rito che la società fatica a fare proprio. In quanto tali sono chiamati anche ad essere tutori di quel rito, i guardiani di una nuova ortodossia in base al quale stabilire che cosa debba rientrare nel rito.

Ma se gli ebrei non partecipano al rito o non lo officiano loro stessi, il rischio è che altri se ne approprino col rischio di trasformarlo in un'arma puntata contro di loro. Se invece assolvono al rito, in cambio dei vantaggi parziali che derivano dal ruolo di "sacerdoti" e "officianti", il rito viene anno dopo anno svuotato e finisce con l'appartenere solo a loro. La società occidentale può liberarsi da un'immagine opprimente prendendone le distanze illudendosi di ritrovare così la pace perduta.

Con gli ebrei si procede in maniera opposta. Anche l'esistenza di Israele, il suo atto di nascita, può diventare una colpa originaria, da cui non si sfugge se non cessando di esistere. Come nell'insegnamento della Chiesa preconciliare, si è giudicati per ciò che si è e non per quello che si fa e quello che si fa è irrimediabilmente ricondotto ad una presunta essenza originaria.

L'andamento della crisi mediorientale fissa i tempi, la virulenza e le forme di questa perversa logica. Se la crisi del conflitto arabo israeliano si acuisce, la domanda può assumere un carattere virulento, al punto che le istituzioni ebraiche che predispongono l'invio dei testimoni per lo svolgimento del rito, hanno preso la sana abitudine di affiancare il "testimone sacerdote" con un giovane preparato a rispondere su questi temi. Il testimone tornato dall'inferno può parlare solo ed esclusivamente dell'inferno. L'esperto di politica può invece rispondere sul resto, entrando con ciò nel merito delle storture prodotte da una cattiva informazione e dalla non conoscenza.

Il rito è salvo ma non per sempre. Il pericolo è solo momentaneamente allontanato, con gli ebrei nella scomoda posizione di doversi confrontare con un duplice ricatto: l'obbligo di ricordare perché gli altri dimenticano, e l'accusa di fissare gli altri in una posizione di colpa perenne....

Il sionismo aspirava a fare degli ebrei un popolo come gli altri, a edificare uno stato ebraico come gli altri stati. L'esito paradossale di questa impresa è stato di avere uno Stato "diverso" dagli altri. Lo Stato degli ebrei è diventato l'ebreo degli Stati, e gli ebrei i suoi ambasciatori in ogni luogo del mondo, non solo agli occhi dei suoi nemici, degli antisemiti vecchi e nuovi, ma anche degli amici più sinceri, che ne difendono l'esistenza...

Israele appare ai suoi amici come ai suoi nemici, un pezzo d'Europa trapiantato in Oriente. La realtà è diversa, più complessa di quanto non appaia ad una prima e semplicistica lettura. Per quel che valgono delle metafore, utilizzate spesso come schermo per occultare e confondere, geograficamente, culturalmente e simbolicamente, Israele contiene l'Oriente come l'Occidente. È Occidente nella misura in cui i padri fondatori del sionismo si ispiravano ad una visione dello Stato e della rinascita nazionale che traeva linfa dalle ideologie dominanti dell'Ottocento, portando con sé un pezzo di Europa nel Vicino Oriente ne avevano accelerato la presa di coscienza politica e nazionale. È Oriente perché in quella "striscia di terra madre", delle grandi civiltà del Libro, e che separa l'Oriente dall'Occidente la civiltà ebraica ha preso corpo e si è sviluppata per oltre un millennio a contatto con l'Oriente profondo. Per non parlare delle tante diaspore che hanno segnato la Diaspora con i suoi forzati spostamenti e le sue invenzioni creative che ne hanno reso possibile la sopravvivenza nei secoli.

Sotto questo aspetto Israele porta dentro di sé i tanti orienti e i tanti occidenti con cui si è incontrato nella sua dolorosa storia uscendone segnato ma anche positivamente trasformato in uno scambio che non è mai venuto meno anche nei momenti più difficili. La condizione di minoranza oppressa o tollerata sperimentata dagli ebrei sotto il cristianesimo e l'islam, è stata anche l'arena in cui l'ebraismo non ha smesso di interrogarsi e scambiare trasformando la sua condizione di debolezza in una condizione di forza per poter sopravvivere nelle condizioni più impervie.

Il rapporto che l'ebraismo ha intrattenuto con le civiltà cristiana e islamica nella storia, non è stato solo l'espressione di una condizione di subalternità, di rifiuto e di oppressione, ma anche di arricchimento culturale, religioso e simbolico, di uno scambio grazie al quale l'ebraismo è riuscito a rinnovarsi e sopravvivere...

Il rifiuto di Israele, la sua trasformazione in Stato paria giudicato in base a criteri che non si applicherebbero a nessun altro Stato è il sintomo di un fallimento dei rapporti fra l'Europa e il mondo arabo, l'Occidente cristiano e l'Islam. Non è qui in discussione il diritto dovere alla critica di questo o quel governo, perché la critica è il sale della democrazia. È qui in discussione le forme che assume, le metafore a cui attinge, le immagini e gli stereotipi di cui si alimenta. Per non parlare della falsificazione e lo stravolgimento dei fatti. Come dimostrano gli inquietanti sviluppi della politica nucleare iraniana, il diritto di Israele ad esistere entro confini sicuri internazionalmente riconosciuti, la sua sicurezza è la condizione stessa della possibilità del dialogo fra l'Occidente e l'Islam. È la condizione per una composizione storica, politica e morale dei conflitti che insanguinano la regione del Vicino Oriente. Senza Israele questo dialogo non sarebbe nemmeno pensabile. L'Europa e il mondo arabo, l'Occidente e l'islam potranno tornare a parlarsi, se Israele pacificato col mondo arabo è presente fra loro come testimone dei loro e dei propri lutti. "Chi vive in un'isola deve farsi amico il mare", così recita un antico proverbio arabo. Israele è una piccola isola accerchiata da un oceano arabo e islamico. Farsi amico quel mare, aprirsi un varco nel cuore degli abitanti di quell'oceano, è per Israele una necessità. Accettare l'esistenza di quell'isola è per l'islam la condizione per rompere la catena di violenze e lutti in cui è tragicamente attraversato.

David Meghnagi, 26 gennaio 2007
(Prof. di psicologia clinica all'Università degli studi Roma Tre, dove dirige il Master internazionale in didattica della Shoah; Full member dell'International Psychoanalytical Association (IPA); membro ordinario della Società psicoanalitica italiana (SPI); già vicepresidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane)

Fonte: Aprile online

27/01/2007
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