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Sei in /Calabria/2011/Incontro con don Giacomo Panizza

L'esperienza di don Giacomo Panizza e la Comunità Progetto Sud. Il coraggio di una scelta

CALABRIA - Guardando e ascoltando don Giacomo Panizza in molti ci siamo chiesti: "Perchè è dovuto venire un sacerdote da Brescia a fare ciò che egli ha fatto in Calabria, a Lamezia Terme?". La risposta evidentemente l'abbiamo trovata nelle sue parole, oltre che nel suo esempio. Il coraggio di una scelta. Ecco ciò che muove le persone e le porta a vivere in luoghi impensati prima, a praticare azioni apparentemente folli perchè spesso controcorrente: don Giacomo, moltissimi anni fa ormai, venne al sud per affiancare gli handicappati in un percorso di emancipazione finora negata, a dimostrare che l'handicap non è una condizione naturale, e pertanto irremovibile, ma una situazione in cui altri ti gettano, "ostacolando" gli spazi in cui ti muovi e i tempi - più lenti - che ti occorrono.

Arrivato per occuparsi di loro è finito poi per occuparsi di chiunque abbia necessità di recuperare un diritto negato, di riguadagnare una vita spezzata, di affrontare la malattia senza pregiudizi. All'Arcipelago Sagarote, a Diamante, ha trovato un posto in cui la disabilità di un bambino è stata la molla che ha fatto scattare in una mamma impreparata a questo "nuovo" arrivato la volontà di affrontarlo senza problemi e di aiutare altri nella stessa situazione ad accettare questa diversità. Luciana Pasetto è del nord Italia come don Giacomo; ciò che l'ha condotta qui è stato all'inizio il clima favorevole agli acciacchi del figlio, poi è rimasta. Per lui? Sicuramente, ma anche per se stessa, per ricominciare. E, da un po', anche per gli altri.

All'Arcipelago Sagarote si vive immersi nella natura, si pratica l'agricoltura sinergica e l'onoterapia. In un momento di crisi, quando proprio si desidera solo mollare tutto, Luciana ha provvidenzialmente incontrato don Giacomo. Per questa sua capacità a farla desistere dall'abbandono, lo ha voluto portare nella sua comunità, dove ha incontrato le associazioni del territorio, cercando di spiegare loro come sia possibile fare rete in Calabria. Ebbene, superfluo parlare di resistenze a tutti i livelli e dire che comunque per un sacerdote la cosa è in un certo senso facilitata. Le forzature che ha dovuto fare don Giacomo sono state moltissime, dalla pretesa di abbattere le barriere architettoniche per agevolare un disabile in carrozzina a entrare in un cinema all'ottenimento di un edificio confiscato alla n'drangheta per accogliere il suo gruppo.

Proprio la 'ndrangheta senza volerlo gli ha indicato la strada: anzi che realizzare una mega comunità ha creato una rete di comunità. Paradossalmente, come la 'ndragheta la sua costruzione si è ramificata in orizzontale, pervadendo quelle parti del tessuto sociale più resistenti e ostili. Dalla sua ha avuto tanti giovani e volontari. Non sempre, ma ha avuto anche l'appoggio delle istituzioni.

Non sempre è stato facile far capire che il confronto con l'handicap o le altre diversità, superato il primo momento di disagio e studio reciproco, può diventare per entrambi una opportunità.

"Il mondo è grande", ha detto sorridendo don Giacomo, mentre parlava nel più informale dei luoghi, sotto una quercia, al limitare di una radura che dà su un burrone camuffato da una fitta vegetazione. Lontano, il mare. E poi solo natura e ancora natura. In un posto simile si diventa per un po' tutti più buoni. E il sacerdote bresciano e calabrese d'adozione ci è venuto a raccontare la sua storia senza infingimenti e senza risparmiare critiche, se ce ne fosse stato bisogno. Coltivare un sogno, perseguire un progetto che si avvertano come propri. Scegliere per l'autenticità piuttosto che per l'inautenticità. Mettere al centro, prima di ogni altra cosa, la persona. Sapere che chi non scelga liberamente, chi non assuma su di sé le responsabilità, per quanto pesanti, non possa essere considerato persona in senso pieno. Fare della cura di chi ha bisogno un atto d'amore, un principio etico che possa spingere anche le istituzioni ad azioni virtuose. Ecco la possibile soluzione al "male Calabria", che poi è il male del mondo. Don Giacomo non ha indicato strade preconfezionate, non ha portato assi nelle maniche né antidoti. Se lo avesse fatto, forse ci avrebbe deluso. Da troppo tempo avvezzi ai propagandisti dei rimedi e delle soluzioni miracolose, di lui abbiamo apprezzato la sincerità. Ognuno faccia bene quello che sa fare, è già un buon inizio. Insistere di fronte agli ostacoli, sfondare porte metaforiche e non, se si fa in fin di bene, guardare candidamente una pistola sbattuta su un tavolo, accettare con devozione le minacce, il taglio delle gomme, la manomissione dei freni, la condizione di protetto. Perchè dal sud don Giacomo ha imparato a non avere fretta, a non accettare doni se non per amicizia. E, nello stesso tempo, ha saputo prendere possesso del palazzo confiscato alla cosca Torcasio, con alcune persone disabili in carrozzella. Immigrato al rovescio, come si è definito, qui ha conosciuto il limbo, l'inferno e il paradiso. Ha condiviso con i calabresi la loro diffidenza non irragionevole, la loro testardaggine speranzosa, il loro fatalismo e i loro sogni. Don Giacomo Panizza, per rispondere alla domanda iniziale, evidentemente ci voleva. Voleva noi ed era nello stesso tempo necessario alla nostra terra. In fondo, di lui ci siamo fidati forse proprio perchè veniva da fuori, non solo perchè sacerdote. Non aveva nulla da guadagnarci redimendoci. E, se prima un handicappato in famiglia si considerava una disgrazia oltre che una maledizione, con quelli come lui si è capito che tra un disabile e una persona diversamente "non libera", perchè collusa, prona, fatalista, immobile, la differenza è davvero poca.

Tania Paolino
21/06/2011
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