S. Nilo (Nato nel 910 - Morto il 26 settembre 1004)
Il 2004 è l’anno delle celebrazioni niliane in tutt’Italia e al di fuori di essa, soprattutto là dove si fece sentire in modo diretto la presenza e l’opera di questo personaggio straordinario, Nilo da Rossano, il monaco basiliano che proprio 1000 anni fa, concludeva le sue peregrinazioni terrene e dalla natia Calabria giunse fino ai colli Albani, morendo nel 1004 nei pressi di Grottaferrata dove i suoi confratelli costruirono successivamente la celebre chiesa insieme con il monastero.
Come abbiamo più volte sottolineato nel corso delle nostre iniziative, la Calabria fu profondamente segnata dal monachesimo greco o basiliano e dalla vita ed opera di S. Nilo; particolarmente rilevanti i segni di questa presenza in tutto l’alto Tirreno cosentino e qui ad Orsomarso che divenne il centro dell’Eparchia monastica del Mercurion, luogo di intensa spiritualità, per la presenza di una generazione di figure eccezionali di monaci, sia per la loro autorità morale che per il loro altissimo livello culturale. Fra le testimonianze archeologiche sparse un po’ dovunque nelle nostre contrade, purtroppo colpevolmente e inspiegabilmente trascurate dall’attenzione di studiosi e ricercatori, salvo alcune eccezioni e la buona volontà di singoli appassionati, citiamo la grotta santuario di San Michele Arcangelo, meglio nota ad Orsomarso come grotta dell’Angelo, ubicata a nord del paese in un luogo quasi inaccessibile. Fu proprio lì che, secondo le testimonianze, avrebbe soggiornato per un decennio, in un periodo di assoluto e profondo ritiro ascetico, a partire dall’anno 944, proprio Nilo da Rossano.
Anche l’Associazione culturale Abystron intende fare la propria parte per dare a questo evento lo spazio che merita allo scopo di poter rilanciare il lavoro di ricerca storica ed il dibattito culturale su un periodo fra i più luminosi della storia di questa terra. Ma ripercorriamo brevemente le tappe della vita di questo grande santo partendo proprio dal luogo in cui, ormai novantaquattrenne, concluse la propria intensissima esperienza terrena.
A Grottaferrata, nel cuore dei colli Albani, nella zona che i Romani chiamavano Tusculanum, dove Cicerone come molti altri suoi concittadini aveva costruito la sua villa, c'è un'imponente abbazia che tra mura merlate, torrioni di difesa e fossati pare un castello: è la badia di Santa Maria di Grottaferrata che ancora oggi, dopo quasi un millennio, è abitata dai monaci Basiliani, così detti perché la loro Regola è quella di San Basilio Magno, vescovo di Cesarea nel IV secolo e Padre della Chiesa. L'abbazia, in cui il rito è quello bizantino-greco, ha esercitato un grande influsso nel medioevo con il suo scriptorium, in cui si copiavano manoscritti con la celebre scrittura detta "tachigrafia greca sillabica niliana o di Grottaferrata". Oggi ancora è un centro di irradiazione culturale della Tradizione orientale grazie a una tipografia e a una biblioteca che serba rarissimi manoscritti oltre a libri a stampa. Non meno importante è il museo che offre un itinerario archeologico, artistico e religioso dal periodo romano fino al Settecento: vi si custodiscono anche gli sportelli di chiusura dell'immagine di Santa Maria di Grottaferrata (X-XI secolo), che invece è nella chiesa: sugli sportelli sono affrescate le figure dei fondatori San Nilo di Rossano e San Bartolomeo di Grottaferrata. Il primo, che è patrono di Grottaferrata, indossa il lungo abito monastico con il cappuccio e il cucullion: con il volto incorniciato dalla barba brizzolata e folti capelli, tiene le mani giunte in preghiera.
Era nato nel 910 a Rossano Calabro, cittadina della costa jonica, in una famiglia benestante. Fu battezzato col nome di Nicola e consacrato, secondo l'uso del tempo, al servizio divino come chierico nella chiesa di Rossano, dove frequentò le scuole annesse ricevendo in seguito la tonsura e l'ordine minore del Lettorato.
"Superava tutti i coetanei nell'apprendere, nel rispondere e nel leggere assiduamente le Sacre Scritture," – scrive il suo discepolo e primo biografo San Bartolomeo – "come pure nelle interrogazioni che rivolgeva ai suoi maestri, i quali rimanevano stupiti come un fanciullo giungesse ad investigare a fondo le Scritture e a muovere siffatte domande." E aggiunge: "Fin dalla più giovane età amava la lettura assidua della vita dei Santi Padri (del Deserto), di Antonio, Saba, Ilarione e degli altri le cui immagini erano dipinte nella cattedrale". Dovette anche rivelare doti non comuni nella scrittura se più tardi divenne un raffinato calligrafo e un innografo. Secondo il suo biografo cominciò fin da allora ad avvertire l'esigenza di una vita appartata e contemplativa. Dopo la morte di entrambi i genitori venne affidato alla sorella. Sembrava destinato al celibato religioso quando improvvisamente sposò una giovane di condizione inferiore alla sua, affascinato dalla sua bellezza. Ma quel matrimonio da cui nacque un figlio non sarebbe durato a lungo. Nilo risentì a poco a poco l'esigenza della vita monastica. Finché un giorno, sistemata la famiglia economicamente, in modo che non le mancasse nulla, decise di raggiungere l'eparchia del Mercurion, dove si erano insediati monasteri, laure, eremitaggi costituendo ai confini fra Lucania e Calabria una vera e propria Tebaide. Basti dire che, quasi contemporanei, vissero in quei luoghi San Cristoforo e Santa Calì, padre e madre di San Saba di Collesano e del fratello San Macario, San Leoluca di Corleone, San Vitale di Castronovo, tutti siculi che si erano trasferiti in Calabria dopo l'occupazione della Sicilia da parte degli Arabi.
Ci vivevano anche tre celebri egumeni, ovvero capi di laure: San Fantino il Grande, San Giovanni detto il Teologo e San Zaccaria l'Angelico, i quali, narra il biografo, "ammiravano in lui un portamento di uomo maturo in membra ancora giovanili e fermezza di propositi, ed attratti dalla soavità della sua voce e dalla sua valentia nel canto e nella lettura, come dall'acutezza del suo ingegno, venivano congetturando fin da allora l'abbondanza di grazie che lo Spirito Santo avrebbe effuso in lui, e come molti sarebbero diventati eredi dei regno dei cieli per opera sua".
Ma non era trascorso molto tempo dal suo arrivo che giunsero lettere minacciose del governatore della regione che prevedeva pene severissime e addirittura la requisizione del monastero dov'era ospitato Nilo se non l'avessero rimandato a Rossano. Quelle minacce probabilmente erano dovute all'intervento delle autorità ecclesiastiche di Rossano che non volevano lasciarsi sfuggire un giovane di straordinarie qualità. I suoi superiori del Mercurion decisero di inviarlo immediatamente in un altro monastero situato nelle terre che dipendevano dai Longobardi, dove le minacce dei Bizantini non potevano impensierire: Nilo partì dirigendosi verso il monastero di San Nazario che si trovava in Campania, non lontano dall'attuale San Mauro la Bruca. Pochi giorni dopo il suo arrivo fu ammesso alla solenne professione monastica e scelse il nome di Nilo in onore di San Nilo Sinaita che, secondo i sinassari bizantini, sarebbe stato prefetto di Costantinopoli sotto Teodosio il Grande: sposato con due figli, un giorno aveva scelto la vita eremitica andando a vivere sul Sinai mentre la moglie con la figlia ne avevano seguito l'esempio recandosi in un altro romitorio in Egitto. In realtà San Nilo il Sinaita, festeggiato in Oriente il 14 gennaio, era un discepolo di San Giovanni Crisostomo ed era diventato superiore di un monastero ad Ancira, in Galazia, dove mori intorno al 430.
Trascorsi quaranta giorni, Nilo decise di tornare al Mercurion immaginando che il governatore di Rossano si fosse ormai dimenticato della sua esistenza. Nel monastero si lasciò guidare da San Fantino che lo considerava un figlio spirituale: fu un lungo apprendistato spirituale che durò tre anni, dal 940 al 943, finché Nilo decise di ritirarsi in una vicina caverna dove c'era un altare consacrato a San Michele. Qui viveva solo, in un'ascesi che era scandita dall'ufficio divino. Dallo spuntare del giorno sino alle nove del mattino scriveva con il suo carattere corsivo, minuto e compatto riempiendo un quaderno al giorno: trascriveva elegantemente libri, dalla Sacra Scrittura alle opere dei Padri della Chiesa, "per adempiere il divino precetto di lavorare" scrive San Bartolomeo. Poi fino alle dodici recitava il salterio facendo migliaia di genuflessioni: "così adempiva anche il precetto che ordina di pregare senza intermissione".
Dalle dodici alle quindici si sedeva a leggere e meditare la Legge del Signore e le opere dei Santi Padri e Dottori. Recitata l'ora nona, "usciva fuori a passeggiare per ricrearsi e riposare alquanto i sensi affaticati dalla lunga giornata, richiamando anche sulle labbra il detto dell'Apostolo: "Le invisibili grandezze di Dio si rendono visibili all'intelligenza per mezzo delle cose create"; e cioè noi comprendiamo il Creatore dalle sue creature".
Dopo il tramonto si sedeva alla mensa, ovvero su una grossa pietra dove poggiava un relitto di coccio che fungeva da piatto, mangiando pane e talvolta legumi e bevendo acqua. Quando gli alberi fruttificavano, si cibava soltanto dei loro frutti. La notte, tranne un'ora di sonno, la dedicava alla preghiera. Tutto il suo vestire consisteva in un sacco di pelle di capra che cambiava una volta all'anno "sostenendo con pazienza e senza infastidirsi il prurito di innumerevoli e fastidiosi insetti": così si usava allora fra gli eremiti. E per dare la pennellata conclusiva a questo quadro varrà la pena di citare ancora il suo biografo: "Di fronte alla spelonca vi era un cespuglio nel quale aveva fatto il nido un gran formicaio. In questo il Santo appendeva il suo sacco di pelle purificandolo così da quei vermi, come conviene chiamarli, per essere tanto insolenti per un anno, i quali perciò venivano giustamente puniti dalle formiche del tormento recato a quel Giusto".
Non possedeva né letto né seggiola né armadio né borsa né bisaccia e neppure un calamaio, sicché scriveva dopo aver spalmata della cera in un legno concavo. Copiava codici, li postillava, ma componeva anche inni che insieme con quelli di San Bartolomeo e di altri monaci resero celebre la scuola innografica criptense. Passarono circa tre anni quando giunse alla caverna il primo discepolo, il beato Stefano, che era un suo concittadino: al quale si aggiunse qualche anno dopo un altro rossanese, il beato Giorgio che, nonostante fosse analfabeta, imparò così bene l'arte del canto e della lettura da stupire gli ascoltatori per la sua voce melodiosa. Verso il 952-953 i Saraceni cominciarono a minacciare quel territorio, sicché Nilo con i suoi discepoli decise di rifugiarsi in un terreno di sua proprietà nei dintorni di Rossano, presso un oratorio dedicato ai martiri Adriano e Natalia, dove costruì un piccolo monastero. In quel luogo rimase circa venticinque anni durante i quali si svolsero molti avvenimenti diventati poi leggendari.
Nel 970, quando ormai la sua fama di Santo era giunta fino a Costantinopoli, i concittadini lo elessero vescovo. Ma Nilo, che aveva fatto il voto di non accettare mai nessuna dignità, si nascose nei boschi circostanti per giorni e giorni finché i messi venuti da Rossano, dopo averlo cercato invano, ritornarono nella cittadina dove si insediò un altro vescovo. Anche da quei luoghi dovette fuggire perché ormai i Saraceni minacciavano la costa: decise di trasferirsi nelle terre dei Latini dove pensava di essere sconosciuto e di non dover "subire" onori. Ma appena giunse nel 979 a Capua, venne accolto trionfalmente dal signore della città, Pandolfo Capodiferro che, per trattenerlo nel principato pregò l'abate di Montecassino di cedergli un monastero: l'abate Aligerno non soltanto gli offrì quello di Vallelucio, che si trovava non lontano da Montecassino, ma lo invitò a celebrare una solenne funzione in rito bizantino-greco nell'archicenobio. I Benedettini accolsero la comitiva ai piedi della montagna accompagnandola fino alla cima: "Sembrava loro," scrive San Bartolomeo, "di vedere o il grande Antonio venuto da Alessandria, o meglio, il grande Benedetto, il santo loro legislatore e maestro".
A Vallelucio lo raggiunse nel 993 un ragazzo di 12 anni, Basilio, che era nato come lui a Rossano. Nilo lo accolse fra i monaci cambiandogli il nome in quello di Bartolomeo. In poco tempo il ragazzo apprese perfettamente oltre all'arte calligrafica quella innografica di cui divenne nell'XI secolo uno dei maestri; e sarebbe stato lui a scrivere quella Vita di San Nilo ritenuta il capolavoro dell'agiografia italo-greca del medioevo. Ma non era ancora giunta la tappa finale del pellegrinaggio: dopo quindici anni, nel 994, quando aveva ormai 84 anni, Nilo dovette lasciare il monastero di Vallelucio perché il successore di Aligerno, l'abate Mansone, aveva abbandonato con i suoi confratelli la primitiva osservanza dando un cattivo esempio ai monaci di San Nilo. Si spostarono nei pressi di Gaeta, a Serperi, una località vicino al mare, deserta e povera: vivevano miseramente in tuguri intorno all'oratorio, come nelle antiche laure. Fu là che nel 999 Ottone III andò a visitarlo dopo un pellegrinaggio al Santuario di San Michele al monte Gargano. Lo aveva conosciuto l'anno precedente quando Nilo si era recato a Roma per intercedere con papa Gregorio V e l'imperatore in favore del deposto antipapa Giovanni XVI, già monaco a Rossano, che era stato torturato atrocemente e accecato. Prima di partire Ottone III disse a Nilo: "Chiedimi, come a tuo figlio, tutto ciò che vuoi, ed io con tutto il cuore te lo darò". Ma il beato, portata la mano al petto dell'imperatore, gli rispose: "Nient'altro chiedo alla tua Maestà se non la salvezza dell'anima tua; poiché, pur essendo imperatore, anche tu devi morire come tutti gli uomini e rendere conto a Dio di tutte le tue opere cattive e buone". L'imperatore scoppiò a piangere; poi, toltasi la corona e postala nelle mani del Santo, si avviò con il suo seguito. Anche questo episodio è stato dipinto nella cappella di Grottaferrata dal Domenichino che volle raffigurarsi nel paggio che reggeva le briglie del cavallo imperiale.
Nel 1003 moriva a Serperi il suo primo discepolo Stefano. Nilo fece allora preparare un doppio sepolcro per lui e per sé. Ma quando il duca di Gaeta seppe della sua intenzione esclamò: "E che? Se il Padre morrà io lo lascerò in quel luogo? Non lo porterò dentro la mia città perché questa lo abbia come fortissima torre di difesa?". Nilo non era assolutamente d'accordo perché "preferiva morire miseramente che essere considerato un Santo". Decise allora di abbandonare Serperi, nonostante che avesse ormai quasi novant'anni e si reggesse a stento a cavallo, e partì verso Roma alla ricerca del nuovo monastero insieme con Bartolomeo. "Non vi rattristate, o padri e fratelli miei," disse ai suoi monaci, "io vado infatti a trovare un luogo adatto per prepararvi un monastero dove io raduni tutti i fratelli e i dispersi miei figli." Che intendeva dire con quelle parole misteriose? Secondo Germano Giovannelli, che ha curato la traduzione italiana della Vita, Nilo alludeva profeticamente al futuro ruolo di Grottaferrata che nello sfacelo e nella perdita di centinaia di monasteri greci in Italia, diventò un centro di cultura bizantina e un punto di riferimento nel dialogo con i cristiani separati d'Oriente.
Mentre si trovava nelle vicinanze di Roma, la comitiva deviò dall'itinerario consueto e giunse a una cappella, detta Cryptaferrata, dove apparve, secondo la tradizione, la Santa Vergine dicendo: "Figliuoli benedetti, questo è il luogo della vostra dimora e delle vostre fatiche virtuose e meritorie; poiché voi dovete affaticarvi anche a costruire in questo luogo la mia Santissima Casa, io vi darò questo pomo aureo che voi collocherete come prima pietra di fondamento". Il biografo invece si limita a dire che Nilo giunse a Cryptaferrata "per divina rivelazione". Il Santo si recò allora al castello di Tuscolo per ottenere dal conte Gregorio I il terreno per costruire chiesa e monastero; ma durante il viaggio si senti venir meno e volle riposare nel monastero greco di Sant'Agata, che si trovava a circa tre miglia da Grottaferrata. Il conte, appena seppe di Nilo, andò a trovarlo offrendogli addirittura tutto il suo contado.
Nel frattempo i confratelli di Serperi, avendo saputo che il padre loro non sarebbe più tornato, erano partiti verso Grottaferrata. Quando vi giunsero Nilo, che giaceva infermo a Sant'Agata, mandò a dir loro che lo aspettassero in quel luogo. Ma ormai sapeva che non li avrebbe più rivisti. Morì nella chiesa del monastero il 26 settembre 1004, giorno in cui lo si festeggia. Era l'ora del vespro: "il sole conobbe il suo tramonto ed egli rese lo spirito a Dio, anzi a dir meglio col sole tramontò il Sole (Nilo): ed in quel giorno venne a mancare la luce sulla terra e la lucerna agli occhi dei veggenti", scrive San Bartolomeo. Il giorno seguente il corpo di San Nilo venne portato a Cryptaferrata dove fu sepolto alla presenza di tutti i monaci. "Quivi, presso il suo sepolcro, rimase tutta la comunità dei fratelli insieme all'egumeno Paolo, intenti al lavoro faticoso per adattare quel luogo sprovvisto di tutto, faticando con ogni pazienza per guadagnarci il pane quotidiano, sia quello spirituale che quello corporale". La tomba, alla quale in seguito si affiancò quella del suo discepolo-successore S. Bartolomeo, fu collocata nella cappella dei Santi fondatori.