Ci sono stati mostrati gli attimi estremi di uomini sul punto di essere uccisi, inginocchiati, alla mercè di altri uomini che stavano per ucciderli.
Ci sono stati mostrati in ambienti vuoti e surreali, sottratti al tempo e allo spazio: quasi una scenografia di un rito, usurpando la dignità della vita e della morte per estenderla all’assassinio.
È indubbio che queste scene abbiano ispirato orrore in tutti: per la sofferenza, la disperazione, il terrore delle vittime, ai quali non è pensabile che ci si abitui.
Ad altro però sì, c’è il pericolo che si ottunda la sensibilità. La ripetizione e l’abitudine ci pone, in qualche misura, tutti «a rischio».
Al rischio di trovare una qualche spiegazione comprensibile a comportamenti che sovvertono principi e valori. Possiamo constatarlo, ad esempio, pensando a come si vivono i sequestri di persona che si risolvono «bene».
Questi crimini vengono, esplicitamente o no, motivati da chi li commette con argomentazioni dall’apparenza «logica».
Si vogliono ottenere comportamenti da un paese; si colpisce e si minaccia un suo cittadino; si indica al governo di quel paese quali atti e gesti deve compiere per salvare quel suo cittadino. In tutto questo la persona dell’ostaggio non è minimamente in questione: è soltanto «un» americano (o «un» britannico, «un» italiano, «un» polacco, «un» sudcoreano …).
Questo «un», questo articolo indeterminativo che dichiara l’indifferenza al contenuto, nasconde – o rivela – l’orrore.
Un essere umano, quand’è sequestrato o minacciato, non è sé stesso, un soggetto. È soltanto uno strumento, una merce di scambio. La sua vita, la sua dignità, la sua libertà, la sua morte non hanno contenuto o valore in sé.
Esistono scopi diversi da lui, valutati più di lui, per i quali può essere adoperato.
Scopi che si possono indicare con diversi nomi, che hanno questo in comune: valori superiori al valore di un essere umano. La ritualità instaurata intorno ai delitti vorrebbe sottrarne la responsabilità chi li compie, farne una «tragica necessità» alla quale ci si sottomette.
Non c’è nemmeno l’apparenza di umanità o di pietà nel dire – addirittura nel pensare - «è doloroso decidere la morte di qualcuno, ma è necessario». Ma che altro dice chi decide che deve fare una guerra, o chi sul campo la conduce impartendo ordini?
Quale diverso significato ha coniare e impiegare l’oscena espressione «effetti collaterali» per indicare vittime accessorie, non programmate?
Se è marginale - «collaterale», appunto – l’umanità, che cos’altro può essere centrale, essenziale? La storia, l’economia, l’egemonia, ma anche il diritto, la giustizia, la democrazia … qualunque significato e qualsiasi verità, se è ritenuto superiore alla dignità e al valore dell’esistenza umana.
L’altra faccia di un detto molto citato suggerisce che chi distrugge una vita distrugge l’umanità.
La guerra è essa stessa, sempre, un crimine contro l’umanità.
«… e non c’è rimedio» (Francisco Goya, 1811)
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