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La Grande guerra nei ricordi dei sopravvissuti

äIl commento all'articolo sulla manifestazione del liceo Metastasio di Scalea, che invitiamo a leggere nell'apposito spazio, offre spunti di riflessione molto interessanti che sicuramente vanno ben ponderati e approfonditi. Nel ringraziare l'autore vogliamo pubblicare anche i brani che gli studenti del liceo hanno letto durante la manifestazione di venerdì scorso in quanto rappresentano sicuramente un'occasione per ripensare, fuor di retorica, alla nostra storia d'Italia che è, prima di tutto, storia di uomini e donne comuni, travolti da eventi così tragici e dolorosi.

La Grande guerra nei ricordi dei sopravvissuti. Le testimonianze tra coloro che hanno vissuto gli avvenimenti della Grande Guerra sono molteplici dalle liriche, alle memorie e diari, alle lettere. Questa piccola raccolta di alcune tra le tante testimonianze vuole semplicemente porre l’attenzione, fuori da ogni retorica, sul dramma silenzioso di tanti soldati e sull’orrore della guerra.

Giuseppe Ungaretti (1888 -1970), inizialmente sostenitore della guerra, vive l’esperienza decisiva per il suo futuro di scrittore, scoprendo in quei mesi trascorsi in prima linea, sul Carso, la sua vocazione alla poesia. La raccolta poetica Il porto sepolto contiene liriche universalmente conosciute, come Veglia, Soldati, San Martino del Carso, nelle quali il senso della precarietà dell’esistenza e al tempo stesso l’amore per la vita vengono espressi con rara sintesi e intensità espressiva.

Soldati
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

Veglia
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato

Tra le memorie e i diari redatti da alcuni giovani scrittori spiccano per qualità letterarie Carlo Emilio Gadda ed Emilio Lussu; nelle loro parole emerge la delusione e l’irritato disagio provocati in chi aveva fermamente creduto nella guerra e nel nostro esercito dall’inefficienza dei comandi militari e dall’indifferenza alle sorti della truppa di molti ufficiali superiori. Il venir meno delle illusioni non fece venir meno il senso del dovere né le motivazioni ideali che li avevano spinti alla scelta interventista.

Carlo Emilio Gadda da Giornale di guerra e prigionia, 1915 – 1919
«I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente e troppo fresco per l’uso, cucite con filo leggero da abiti anzi che con spago, a macchina anzi che a mano. Dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spaccano, si scuciono, i fogli delle suole si distaccano nell’umidità l’uno dall’altro. Un mese di servizio le mette fuori d’uso. Questo fatto ridonda a totale danno, oltre che dell’economia dell’erario, del morale delle truppe costrette alla vergogna di questa lacerazione, e, in guerra, alle orribili sofferenze del gelo! Quanta abnegazione è in questi uomini così sacrificati a 38 anni, e così trattati! Come scuso, io, i loro brontolamenti, la loro poca disciplina! Essi portano il vero peso della guerra, peso morale, finanziario, corporale e sono i peggio trattati».

Lo scrittore Emilio Lussu, che ha preso parte alla guerra come volontario ha ricordato così i terribili momenti che precedono l’assalto.
«Il battaglione era pronto, le baionette innestate. Non si sentiva un bisbiglio. Si vedevano muoversi le borracce di cognac. Dalla cintura alla bocca, dalla bocca alla cintura, dalla cintura alla bocca. Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più terribile. L’assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra. Ci buttammo innanzi. In pochi secondi tutto il battaglione era di fronte alle trincee nemiche le mitragliatrici nemiche ci attendevano. Appena oltrepassammo una striscia di terreno roccioso ed incominciammo la discesa verso la vallata, scoperti, esse aprirono il fuoco. Le nostre grida furono coperte dalle loro raffiche. I soldati colpiti cadevano pesantemente come se fossero stati precipitati dagli alberi. Su mille uomini del battaglione, pochi restavano in piedi ed avanzavano. Io guardai verso le trincee nemiche. I difensori non erano nascosti, dietro le feritoie. Erano tutti in piedi e sporgevano oltre la trincea. Essi si sentivano sicuri. Sparavano su di noi, puntando calmi. Noi offrivamo ai tiratori in piedi, un bersaglio compatto».
(E. Lussu, Un anno sull’altipiano, Torino, 1960,pp.104-107)

Gli assalti portano alla conquista di qualche metro di terra, ma il prezzo è elevatissimo. La seconda battaglia dell’Isonzo, un assalto di grandi proporzioni alle linee nemiche, che frutta agli italiani la conquista di una striscia di terra larga solo poche centinaia di metri, è stata ricordata così da un testimone austriaco:
“Quando la battaglia si placò il quadro immane che si presentò alla vista di entrambi gli avversari era di una desolazione infinita, indescrivibile, avvolto in un vapore sanguigno e disseminato di corpi umani smembrati. Gli italiani avevano conquistato una fascia di terreno profonda da duecento a seicento metri, sacrificando nell’impresa circa cinquantamila fra morti e feriti. Non era possibile citare il nome di un solo villaggio che fosse stato conquistato, neppure un’unica casa. Agli occhi dei combattenti non si presentava altra vista se non la sconfinata estensione dell’altopiano carsico, su cui le nuove posizioni si trovavano a portata di voce delle precedenti.”

Un importante serbatoio di memoria popolare relativo alla Grande guerra è costituito dalla parola in musica. Le canzoni rappresentano una fonte di indubbio interesse, poiché consentono di recuperare l’espressione di sentimenti collettivi largamente condivisi in determinati contesti e frangenti storici.
La canzone che viene qui proposta trae origine dalla sanguinosa conquista da parte degli alpini di una delle tante cime in cui erano collocate le postazioni difensive degli austriaci.

MONTENERO
Spunta l'alba del 16 giugno,
comincia il fuoco l'artiglieria,
il Terzo Alpini è sulla via
Monte Nero a conquistar.

Monte Rosso e Monte Nero,
traditor della vita mia,
ho lasciato la casa mia
per venirti a conquistar.

Per venirti a conquistare
abbiam perduti tanti compagni
tutti giovani sui vent'anni
La loro vita non torna più.

Il colonnello che piangeva
a veder tanto macello:
Fatti coraggio, Alpino bello,
che l'onor sarà per te!

Arrivati a trenta metri
dal costone trincerato
con assalto disperato
il nemico fu prigionier.

Ma Francesco l'Imperatore
sugli Alpini mise la taglia:
egli premia con la medaglia
e trecento corone d'or.

Chi gli porta un prigioniero
di quest'arma valorosa
che non forza baldanzosa
fa sgomenti i suoi soldà.

Ma l'alpino non è
un vile, tal da darsi prigioniero,
preferisce di morire
che di darsi allo straniero.
O Italia, vai gloriosa
di quest'arma valorosa
che combatte senza posa
per la gloria e la libertà.

Bella Italia devi esser fiera
dei tuoi baldi e fieri Alpini
che ti dànno i tuoi confini
ricacciando lo stranier.

Le lettere costituiscono un’altra fonte essenziale per la comprensione anche di quegli aspetti meno noti, ma importanti per ricostruire il travaglio di tanti giovani di fronte alla guerra ed il senso stesso degli avvenimenti che hanno vissuto in prima persona.

Cari genitori,
«Da mesi non abbiamo più avuto l'ordine di attaccare, pare che sia di vitale importanza mantenere le nostre posizioni. A volte scorgiamo il nemico, più spesso lo intuiamo dietro a qualche colpo isolato e ad ordini urlati ed incomprensibili. Il tenente Manetti mi dice sempre che è convinto che la vittoria sia ormai questione di settimane, forse qualche mese. Io faccio finta di credergli. Dal comando intanto arrivano solo disposizioni per non abbandonare la nostra trincea, per nessun motivo. Anzi, in seguito alla violazione delle consegne da parte di alcuni (qualcuno del 3° battaglione, dicono) sono state disposte delle sentinelle tra una trincea e l'altra con l'ordine di sparare a chiunque esca senza precise disposizioni.
Spero di rivedervi presto. - Vostro figlio».

Cari genitori
«È accaduto un fatto per lo meno strano. L’altra notte ebbi l’incarico di portare un dispaccio alla trincea che è situata poche decine di metri alla nostra sinistra. Era buio e tirava un forte vento. Dopo aver percorso pochi metri fuori della trincea, sono scivolato dentro un fosso. La terra qua e là bagnata dall’umidità e dalla pioggia e, non riuscendo a risalire il pendio, fui costretto ad allargare il mio percorso. Il buio e la paura di essere colpito da qualche cecchino nemico mi impedirono di rendermi pienamente conto della direzione dei miei passi. All'improvviso mi ritrovai a pochi metri dalla postazione delle sentinelle, quelle disposte tra una trincea e l’altra. Ero combattuto, non sapevo se farmi riconoscere o cercare di allontanarmi senza essere visto. Poi, nonostante il timore che decidessero di spararmi perché mi ero allontanato dalla mia trincea, richiamai la loro attenzione con la voce. Loro non mi risposero. Mi avvicinai ancora: nel buio potevo vedere le sagome immobili. Avevo paura, ma strisciai ancora fino a loro. Immobili. Nell'oscurità toccai il braccio di quello più vicino. Cadde riverso a terra. Pensai che fossero stati uccisi dai gas, ma mi sbagliavo: erano solo pupazzi.
Ero più spaventato di quanto voi possiate immaginare. Corsi via, inciampando e cadendo cercavo di tornare indietro sui miei passi. Poi degli spari, qualcuno mi aveva visto. Venivano dalla mia sinistra. Mi riparai, incerto della loro provenienza. Non potevo rimanere lì, me ne resi conto in fretta. Mi rialzai e ricominciai a correre.
Ancora spari, sempre isolati però, mai raffiche. E sempre dalla mia sinistra. Non potevo tornare indietro, verso la mia trincea, e continuai così a procedere lungo quella direzione per diverso tempo.
E ancora spari. E sempre dalla mia sinistra. Impiegai un tempo che non saprei quantificare, ma di certo potevo già scorgere il chiarore dell'alba quando riconobbi il profilo di un gruppo di alberi nei pressi della mia trincea.
Ma c'era qualcosa che non si adattava a quello che potevo ricordare. Io ero uscito per raggiungere la trincea di sinistra e mi ritrovavo a rientrare dalla parte destra della mia trincea.
Il mio ritorno venne festeggiato dal tenente Manetti (siamo rimasti solo lui ed io, gli altri sono tutti morti) che credeva che fossi stato colpito da un cecchino nemico.
Non gli parlai di quello che avevo visto.
Ma ora sono certo che questa guerra non finirà mai.
Vostro figlio».

Cari genitori,
«vi invio questa mia sperando di rincuorarvi dal dolore provocato dalla mia forzata assenza. Le giornate qua passano lunghe e tediose, ed il vostro ricordo mi è di non poco di conforto. Ho ancora la foto che ci facemmo fare il giorno della mia partenza, anche se ormai è un poco sbiadita. La nebbia è da mesi nostra compagna, e solo raramente si riesce a scorgere una sfumatura di azzurro sopra le colline. A volte piove, ma mai in modo violento, è sempre una pioggia fine e triste. Da voi c'è ancora il sole?
A presto. - Vostro figlio».

02/11/2008
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