di Tania Paolino
POLISTENA - Siamo in Calabria, là dove si toccano mare e montagne, calma e asperità, disperazione e speranza, assuefazione e rivolta. Contraddizioni che, materializzandosi, si confondono ancor più quando si parla, si vive e si muore di ‘ndrangheta. Non è possibile però capirlo pienamente se qui non si è nati o non si è consacrata una parte della propria anima a questa terra difficile. Io lo sapevo, lo intuivo, ma l'ho toccato con mano quando sono stata a Polistena, nella piana di Gioia Tauro, dove ho avvertito la differenza tra il peso reale della criminalità e, di conseguenza, di un'antimafia seria, e la semplice percezione della sua esistenza, con le belle dichiarazioni e le parate simboliche e ufficiali, che ne derivano. Mi spiego meglio: se la vita per un giovane calabrese è in generale difficile, in alcune zone lo è ancora di più. Se altrove è possibile non schierarsi, lì già il non scegliere da che parte stare equivale a schierarsi dalla parte sbagliata. Far capire ai ragazzi quest'altra differenza diventa allora una priorità per chi opera in una scuola che voglia dirsi "presidio di legalità".
Ho accompagnato, insieme con i colleghi Grazia Garreffa e Francesco di Giano, tutor di Libera, 26 studenti del Liceo Metastasio di Scalea a Polistena e dintorni, a conclusione di un percorso sulla e di legalità intitolato, non a caso, "Legittima difesa". Li abbiamo portati a conoscere, e noi con loro, una realtà nuova, ancora in fermentazione, la cooperativa sociale "Valle del Marro", che gestisce diversi ettari di terreno confiscato alla ‘ndrangheta. Sergio, uno di loro, ci ha fatto da cicerone, spiegandoci i motivi e le difficoltà di questa scelta, quella, cioè, di rimanere in Calabria per cambiarla, una scommessa che fa ancora i conti con tanta omertà e diffidenza. Ma vedere Marina, madre di 3 figli, unica donna a essere entrata in cooperativa, che ha osato sfidare secoli di chiusura mentale e sociale, mentre tagliava peperoncini per farne sott'oli, o altri giovani vagliare le olive nere da quelle verdi, o lo stesso Sergio spiegarci il motivo per cui i loro ulivi secolari sono gli unici a essere potati e ridotti in altezza - anche questa cosa è stata vissuta dagli altri come la rottura di un equilibrio - o alcune vacche girovagare tranquille e ignare tra i campi, sacre come quelle indiane ma in nome di altre divinità, ci ha fatto capire che è possibile liberarsi e voltare pagina.
Sono piccole ma grandi realtà, immense, se inserite in un contesto in cui non c'è lavoro, in cui si spara e si muore di lupara, in cui a volte manca la percezione che lo stato, le istituzioni ci siano, stiano lì a presidiare, a prevenire. Mario Congiusta è un altro tassello del puzzle che si va costruendo, egli ha fatto della lotta alla mafia la sua nuova ragione di vita: unico argine alla disperazione per aver perso un figlio, Giancarlo, vittima innocente. Non una tragedia semplicemente personale, della sua famiglia, egli l'ha trasformata invece in una tragedia sociale, umana, che interessa tutti e rispetto alla quale tutti sono chiamati in causa. Non è responsabilità del singolo, ma della società nel suo complesso se esistono ancora al suo interno nodi irrisolti, così come le scelte del singolo, buone o cattive che siano, finiscono prima o poi per ricadere sempre sulla totalità degli uomini. Abbiamo incontrato Mario Congiusta all'interno di uno stabile anch'esso confiscato, lo abbiamo conosciuto un poco, ne abbiamo apprezzato la fermezza, la dignità, il coraggio: non ci ha nascosto il suo immenso dolore, ce lo ha persino descritto nelle sue somatizzazioni, lasciandoci dentro lo stesso languore, una sorta di malessere misto a rabbia, il peso di una "fatalità" alla quale da sempre siamo stati educati, ma che quando ti tolgono un pezzo della tua vita è pronta a trasformarsi in ribellione, in sfida, in rivincita.
A Polistena, che nel corso di questo viaggio ci è sembrata una specie di oasi, un' anomalia in positivo, pur sapendo che non lo è per fortuna, abbiamo visitato anche il locale Itis "C. Milano", dove il preside Mileto e alcuni docenti ci hanno accompagnato attraverso solo alcuni dei 14 laboratori, con l'orgoglio e la modestia di chi sa che sta facendo solo ciò che è il proprio dovere e sta assolvendo semplicemente a un compito che è quello fondamentale per ogni scuola: essere, come si diceva, presidio di legalità. Qui è avvenuto il gemellaggio tra il liceo di Scalea, diretto da Elena Cupello, la quale ha avuto in questi anni la capacità di aprire il Metastasio a realtà e percorsi di autentica formazione, e l'istituto di Polistena, in cui abbiamo apprezzato immediatamente la dedizione e l'impegno del dirigente Mileto e dei suoi collaboratori. Dentro questa scuola i ragazzi ospiti hanno ascoltato gli accorati discorsi di don Pino Demasi, sacerdote apertamente schierato contro la criminalità - cosa dovrebbe fare, se non questo, un sacerdote? se non discernere da che parte stanno oggi i diseredati, gli sfruttati, le ingiustizie? - e due membri della locale organizzazione antiracket.
Siamo in Calabria. E stiamo provando, insieme, ad aprire gli occhi, la bocca, le orecchie. Perché andare orgogliosi della propria storia vuol dire progettare un futuro e vivere un presente per cui valga la pena anche morire. Parole grosse, forti, per un giovane, forse. Parole vere e pressanti, però, se legate alla vita spezzata di Gianluca Congiusta e dei tanti, dei troppi, come lui.