Il personalissimo viaggio nella memoria di Lucia Santelli ci porta ad esplorare l'affascinante mondo del pane, della panificazione e l'antica, complessa e misteriosa simbologia fatta di gesti e immagini che tendono a scomparire man mano che la nuova dimensione del villaggio globale avanza inesorabilmente e si afferma in tutte le sue forme. Un lavoro prezioso, quello di Lucia, che consente di effettuare un'azione di recupero e conservazione di un patrimonio che andrebbe inevitabilmente perduto insieme ai sospiri malinconici di tutte quelle persone che in una fase importante della loro vita hanno condiviso tutto ciò che viene raccontato in queste pagine. Probabilmente, leggendo questo scritto, altri potranno ravvivare il fuoco mai spento dei ricordi e delle loro storie di vita condividendoli con quanti lo vorranno. (Foto Archivio Abystron)
Il pane come dono di Dio.
Ed è proprio con il pane che il mio viaggio nella memoria prosegue. Il tema del pane mi ha sempre affascinato e quando penso a questo alimento la mia mente va ad Orsomarso. Certe volte mi domando il perché e poi penso che ho così amato il luogo dove sono nata e cresciuta che sento il bisogno di raccontare ciò che mi è stato insegnato o che semplicemente ho osservato e catturato, portato con me proprio come un bagaglio e che ho utilizzato durante il cammino della mia vita.
Il pane è l'alimento principe e indispensabile per la sopravvivenza dell'uomo, frutto di duro lavoro e fatica, di pazienza, di ansie, ma anche di gratitudine, di soddisfazione e di abbondanza da meritare un posto di rispetto e di onore. Proprio per questo in ogni casa, e in ogni famiglia orsomarsese, c'era (e in alcune case c'è ancora) un forno a legna, collocato di solito a fianco del camino, costruito con mattoni pieni e con grande sapienza e abilità dai maestri muratori: a mio parere una vera opera d'arte. Ma prima di parlare della preparazione del pane, credo, sia doveroso soffermarmi su alcuni elementi che lo compongono come ad esempio la farina, i mulini ad acqua che ormai non esistono più, ma anche di professioni per me importanti e mitiche come quelle del mugnaio e della fornarina, personaggi ormai desueti e sconosciuti ai più.
La semina avveniva in autunno nel terreno arato, trainato dai buoi, dove esperti seminatori estraevano dalle loro sacche a tracolla, manciate di frumento che a pioggia cospargevano nei campi. Quando questi in primavera si rivestivano di morbidi tappeti verdi, il contadino interveniva per zappettare il terreno e mondare il grano dalle erbacce, accudendolo proprio come si fa con un bambino.
Tante volte mi sono fermata, incantata a guardare questo spettacolo che la natura gratuitamente mi offriva, ancora adesso mi appare davanti agli occhi questo quadro dipinto di molteplici colori: l'oro del grano, il rosso dei papaveri, e l'azzurro dei fiordalisi. A luglio la varietà dei colori dei campi dava vita e movimento. Quando le spighe di grano dorato ondeggiavano al vento era il segnale che era maturo e pronto per essere mietuto. Allora alle famiglie che si aiutavano a vicenda, si univano i braccianti agricoli muniti ognuno della propria falce, sotto il sole cocente e grondanti di sudore lavorando fino all'imbrunire, mentre le donne, oltre a legare e trasportare i fasci mietuti -"i gregni"- ammassandoli in enormi covoni, rifocillavano gli uomini con acqua fresca e spuntini gustosi. Erano momenti di grande attesa e trepidazione, gli occhi sempre rivolti al cielo per il timore di improvvisi temporali che potessero rovinare il raccolto, ma anche momenti di grande festa: alla fine della giornata non potevano mancare cibo genuino e vino buono, ingredienti indispensabili per tenere allegra la compagnia (e se c'era anche l'organetto la festa era completa con qualche giro di tarantella). Ricordo ancora l'aia, "l'arija", una specie di pista circolare in terra battuta, (per noi bambini piccoli di allora era il luogo per giocare ed essere facilmente sorvegliati dagli adulti) dove avveniva "a pisatura" ovvero la separazione dei chicchi dalla spiga e dalla paglia. A spigolare era utile anche l'intervento dei bambini, soprattutto ai bordi dei campi dove la falce non poteva arrivare. Adesso è tutto meccanizzato e addirittura al momento della mietitura, con una sola operazione la macchina miete, trebbia e divide il grano versandolo direttamente nei sacchi mentre la paglia viene restituita già pronta e impacchettata in blocchi rettangolari "i ballette".
Proprio a proposito della trebbia, mi piace segnalare un importante articolo pubblicato dalla nostra associazione Abystron nel bollettino n. 9 di novembre 2000, raccontato da uno dei protagonisti: il signor Gino Donato, il quale nel 1956 ha partecipato attivamente insieme a una squadra di operai del paese, al trasporto in spalla - il primo - di questo importantissimo macchinario fino a Scorpari.
Scorpari si trova a circa 800 metri di altezza e dista 10 km dal paese, e a quell'epoca esisteva solo una impervia mulattiera che si inerpicava fra le montagne. Una testimonianza importante, carica di emozioni, di simpatia e fatica, scritta in dialetto orsomarsese, a mio parere una parte integrante della storia di Orsomarso che si avviava lentamente verso il progresso tecnologico. Vi invito volentieri a rileggerlo.
Ma per ritornare al grano, una volta a casa, i sacchi venivano riposti in luoghi freschi e asciutti, solitamente nei magazzini, "i catùji". Nel sacco destinato alla semina dell'anno successivo veniva aggiunto un pezzo di calce viva che preservava il germe del grano da eventuali parassiti che potevano compromettere il raccolto. Nella cassapanca, "a cascia", in casa divisa in scomparti c'era il grano e la farina per l'uso quotidiano.
Continuando il viaggio dei ricordi, ecco che mi viene in mente l'immagine del mulino, e mi sembra doveroso soffermarmi un po' per parlare anche dei personaggi che ci lavoravano. I mulini oggi sono soltanto nella mia memoria, generalmente erano situati all'ingresso e alla fine del paese dove era facile collegarsi con i corsi d'acqua. Quasi tutta la famiglia del mugnaio lavorava al mulino ed è per questo che li chiamavamo"i mulinàri", le fornarine erano invece donne forti e robuste, a volte anche estranee alla famiglia, ma che prestavano servizio al mulino ed erano dette "i mulinareddi". Esse si occupavano anche del trasporto del grano e della farina dopo averla macinata. Ho l'immagine nitida delle fornarine di quando sul capo si caricavano in perfetto equilibrio, interi sacchi, anche del peso di 50 kg.!
Il mulino era un enorme stanzone quadrato e a me sembrava un grande giocattolo simile a un mostro, mi affascinava vedere tutte le varie scale a pioli, porte e sportelli a scomparsa che legati da uno spago andavano su e giù per controllare sia gli ingranaggi che il grano. Il rumore che regnava era assordante, fantastico e misterioso allo stesso tempo a causa dell'acqua che scendeva a cascata e con violenza per far girare le macine. Ricordo la fornarina parlare ad alta voce e vedo la sua abilità, con movimenti precisi e ritmati, setacciare, dividere, e togliere eventuali corpi estranei dal grano fino a versare il tutto in una grossa buca (a me sembrava una grande bocca spalancata) situata nella parte alta del macchinario. Le sue mani esperte controllavano la grandezza e la consistenza della farina. Il sacco di cotone accoglieva ciò che sarebbe diventato poi pane.
L'altro elemento importante per me era il fosso dell'acqua e i suoi molteplici usi: infatti oltre ad irrigare gli orti e far funzionare il mulino era anche il luogo di ritrovo dove le donne in ginocchio come in preghiera facevano il bucato, cantando e sciacquando panni nel racconto della propria quotidianità.
Ora a Orsomarso è rimasto solo un mulino con il suo fosso, (a Sandu Linardu) e anche se non è più in uso, conserva lo stesso il suo fascino: è il luogo in cui è possibile toccare con mano i segni del tempo, e sono molto evidenti le trasformazioni avvenute in un territorio ricco di acqua e di vegetazione. Sta lì a testimoniare il passato di una generazione contadina laboriosa e protagonista di storia di duro lavoro. Spesso durante l'estate ho portato mia figlia a visitare questi luoghi ormai scomparsi quasi del tutto.
"Quando in casa c'è il pane c'è tutto". Queste parole risuonano ancora nella mia testa e ed era ciò che si dicevano le massaie orsomarsesi quando il pane stava per finire. Infatti la panificazione avveniva almeno una volta alla settimana o al massimo ogni dieci giorni, a seconda del numero dei componenti della famiglia.
La sera prima dell'imbrunire o, come dicevano loro, "a vespru", bisognava "cresci u livatu", che consisteva nello sciogliere il lievito madre in acqua tiepida, aggiungere dell'altra farina, impastare e coprire con uno strofinaccio bianco, "stijàvuccu", e lasciare fermentare e riposare per tutta la notte. Ogni famiglia possedeva il proprio lievito madre, ma quando capitava che fosse andato a male, allora si chiedeva in prestito alla vicina di casa, ma sempre prima dei Vespri altrimenti nel piatto coperto dal tovagliolo veniva aggiunto un coltello. Ho chiesto alle mie care donne intervistate che mi hanno fornito tante preziose informazioni, il motivo di questo gesto, ma esattamente neanche loro lo sanno, così era stato insegnato loro e tramandato oralmente (forse si tratta di leggendaria superstizione: trasportare il lievito di notte e senza coltello era considerato malaguriju, di cattivo auspicio). Intanto nella madia (vasca rettangolare di legno fatta artigianalmente), "a mattra", la farina setacciata aspettava di essere impastata.
La panificazione iniziava in genere alla mattina molto presto, con le prime luci dell'alba: mi sembra di vederle ancora adesso, mia mamma con mia nonna che davano inizio ai preparativi. Quanto mi piaceva guardarle mentre setacciavano la farina, morbida e lieve, simile alla neve, e quanto mi divertiva vedere i disegni e la forma che la stessa farina prendeva! Alla farina setacciata veniva aggiunto sale grosso, il lievito, che nel frattempo era cresciuto di volume, e acqua a temperatura ambiente. Prima di iniziare ad impastare, bisognava lavarsi le mani e le braccia con acqua e sapone, tirarsi su le maniche fin sopra al gomito, legare il grembiule e un foulard possibilmente bianco sulla testa (per evitare la caduta di qualche capello). Braccia forti e mani possenti a pugno chiuso che affondavano nella massa di pasta, il corpo contribuiva ancheggiando in un movimento ritmato insieme alle braccia, insomma una vera e propria coreografia di musica e danza. Quando l'impasto risultava caldo e gonfio, si toglieva un piccolo quantitativo (circa 200 grammi) per conservarlo per la panificazione successiva (era il lievito madre) quindi si "shkanàva", si preparavano le pagnotte, "i panetti", i pijàtuli", ciambelle e i "pitti", forme di pane sottile con il buco in mezzo e si adagiavano sul letto preparato apposta: come gesto finale il segno di croce e la parola "cresci" come preghiera, il tutto veniva avvolto e coperto con delle tovaglie usate solo per il pane. Questo durante l'estate. In inverno invece per riparare l'impasto dal freddo si usavano anche le coperte per favorirne la lievitazione.
La lunga esperienza acquisita, il buon senso e l'amore per il sacro rito che si stava per compiere creava il giusto connubio fra gli ingredienti e a far sì che il frutto della terra diventasse nutrimento per il corpo. Con pazienza, silenzio e rispetto, si aspettava che si compisse il grande miracolo. Intanto il fuoco ardeva nel forno con legna profumata ed essiccata, tutti gli attrezzi che servivano per rastrellare: "u rastìddu", (il rastrello) "u strazzàfurnu" (l'attizzatoio), "u scùpulu", uno spazzolone fatto con le cime della pianta del mais inzuppato d'acqua, e pronti per essere usati e a portata di mano. C'era sempre l'occhio vigile della nonna che teneva tutto sotto controllo, alzava un lembo della tovaglia e con una lieve pressione del dito sulla pasta controllava lo stato della lievitazione. Quanto mi piaceva quel gesto! Per apprendere questa antica arte di fare il pane anche io volevo toccare, la sensazione tattile che percepivo allora è difficile da descrivere. Il pane era pronto per cuocere quando alla pressione del dito si alzava immediatamente ed il volume della pasta era aumentato.
A questo punto anche il forno era pronto ad accogliere la prima infornata di "pitti e pijatuli" e una volta cotti questi, si infornava il pane. Quanta abilità e destrezza nel maneggiare le pagnotte, rigirarle, sistemarle sulla pala per darle la forma, benedirle con il segno di croce e infornarle, sembrava di assistere a una messa in scena quasi religiosa. Il profumo della cottura del pane invadeva tutta la casa e anche il vicinato. Difficile da dimenticare. Attraverso l'imboccatura del forno togliendo la porta metallica, "a chiurèrna", si controllava la cottura del pane e si decideva se aumentare la temperatura o se tenerlo aperto per disperderne il calore. Quando il pane aveva preso il bel colore dorato, si diceva che era "scesa la rosa", significava che il pane era quasi cotto, e a quel punto non poteva accadere più niente che potesse comprometterne la cottura. Da quel momento chi aveva panificato poteva uscire di casa. Le mie preziosissime donne mi hanno spiegato che lasciare la casa prima che fosse scesa la rosa, voleva dire portare fuori con sé anche il calore del forno. Non credo fosse solo superstizione ma anche una reazione chimica, poiché anche quando prepariamo una torta in casa, le indicazioni sulle ricette ci avvisano di aspettare 5/10 minuti prima di aprire il forno e solo a cottura ultimata, altrimenti il dolce si affloscia e diventa immangiabile. Quando si entrava in una casa dove si panificava, prima di varcare la soglia era d'obbligo dire: "Sandu Martinu!", San Martino, la padrona rispondeva al saluto: "Bona vinuta!", Ben venuta, anche quando usciva si congedava dicendo: "ti lascio con San Martino" - "ti lassu cu Sandu Martinu". Simbolicamente mi sembra questo gesto molto bello e rassicurante. Questo rituale è ancora in uso specialmente nell'Italia meridionale. A questo proposito segnalo che Ernesto De Martino in Sud e Magia alla pagina 43, ci ricorda che San Martino è il Santo dell'abbondanza e della vigoria, quindi questo sembra valere anche per Orsomarso.
Era d'uso e anche d'obbligo condividere e omaggiare di una pitta i nonni, e anche di qualche piajatulu soprattutto i vicini di casa/amici. Ricordo ancora la gioia che provavano i nonni quando ricevevano il pane fresco e morbido e con quanto piacere e gusto lo mangiavano a causa dei pochi denti che avevano. "Il pane è grazia di Dio" diceva la mia cara, amata nonna Lucia: guai appoggiarlo con il suolo girato verso l'alto o farlo cadere a terra, e se succedeva mi obbligava a raccoglierlo e baciarlo. Anche quando era ammuffito, mi ricordo, che ero costretta a mangiarlo. "U pani mucatu ti fa cresci", il pane con la muffa ti aiuta a crescere mi diceva; ... io ci credevo e lo mangiavo ... i risultati magari sono un po' discutibili, però adesso capisco cosa intendesse, e cioè che bisognava portare rispetto verso una risorsa che non andava mai sprecata. - Il pane non si butta mai, è sudore e fatica - ripeteva come una litania. Bisognava portare grande rispetto a ciò che era ed è considerato dono di Dio.
Che il pane sia sacro nelle religioni è risaputo, l'ostia consacrata diventa il corpo di Cristo per i cristiani. Per gli Ebrei il pane azzimo (non lievitato) è il simbolo della liberazione dalla schiavitù dall'Egitto. Ricordo molto bene quando sono stata in Israele nel periodo della Pasqua Cristiana in coincidenza con quella Ebraica, per tutta la settimana ci è stato proibito toccare e mangiare pane lievitato.
Proprio per la sacralità del pane è molto vivo in me il ricordo di quando a Orsomarso al giovedì Santo, dopo il rito della lavanda dei piedi, il sacerdote abbracciava l'apostolo porgendogli un grosso ciambellone intrecciato e adornato da un ramo di ulivo benedetto il giorno delle Palme: "u pucciddatu". Preparato con grande fede e devozione dalla buonanima, "a bunarma", di Aurelia Celentano. Ricordo vagamente - e non so se lo è ancora - che aveva un sapore un po' acido e diverso dal pane casereccio, era molto bianco e con la crosta lucida. Quanto mistero c'era in quelle ceste coperte dalla tovaglia di lino e adagiate sull'altare per essere benedette! E come posso dimenticare la bontà del pane di San Giuseppe offerto dai devoti ai fedeli dopo la messa dedicata al Santo. O il gesto misterioso del pane offerto durante il convito sempre di San Giuseppe, "u mmitu ri San Giseppi", quando alla pagnotta offerta all'apostolo/santo, la padrona di casa ne toglie un pezzo per conservarlo come se fosse una reliquia perché possedeva proprietà terapeutiche (di questo ho già parlato nell'approfondimento pubblicato sul sito Abystron in agosto 2010). Vagamente ricordo, sempre nel periodo di Pasqua "a pizzatula", pane a forma di bambola con l'uovo sodo in bocca. Fino a quando non si rompeva o si sbriciolava la utilizzavamo noi bambine per giocare e solo alla fine quando ormai non serviva più la mangiavamo.
Per non parlare della pizza infornata prima del pane, "a pitta ca pummarora", preparata con pomodoro fresco, basilico e aglio, quel gusto e quel profumo si è annidato nei miei sensi e ogni tanto riaffiora, e anche se provo a rifarla con lo stesso procedimento di allora e con gli stessi ingredienti, il sapore non è più lo stesso. Ricordo una simpatica curiosità: le mie care nonne non pronunciavano mai la parola pizza ma bensì dicevano pitta. Si scandalizzavano e ci sgridavano dandoci delle maleducate (pizza in dialetto è il membro maschile) ma noi ci divertivamo come matti nel trasgredire, ripetendo questa parola che per loro era così scabrosa. Giochi di infanzia che ho poi rivisto in mia figlia nello scambio intergenerazionale con la sua bisnonna.
Alla mattina alzarsi dal letto con il profumo del pane che cuoceva nel forno era proprio un dolce risveglio, era l'occasione per gustare "u pijatulu" imbottito con la mortadella, un grande godimento e felicità degli adulti ma soprattutto per noi bambini. Eh si, lontani ricordi!
Oltre al pane, molto utile e pratico per i contadini, c'era il pane biscottato, le frese, "i frisiddi e tangareddi", a mio parere un'altra prelibatezza per il palato, molto gustosi bagnati e conditi con olio, origano e pomodoro fresco, era questo un altro modo migliore per saziarsi.
Prima di concludere mi piace ricordare le panettiere, "i panettèri", che - a differenza delle fornarine che lavoravano al mulino - panificavano in casa propria (una specie di forno pubblico) per le persone sole e gli ammalati. Persone mitiche e importanti, con i loro esempi e la loro saggezza hanno contribuito alla mia formazione di donna. Che care persone! Sempre affettuose, pazienti e generose. Le ringrazio tantissimo per tutta la loro disponibilità. Quanta tenerezza mi dimostravano quando mi chiamavano: "fjiataredda", piccolo fiato. È cosi che le ricordo e mi piace mantenere viva questa memoria condividendola qui in questo lavoro.
Per la generazione prima della mia, il pane fatto in casa è stato segno di benessere e salute. Prima si mangiava anche pane di mais, le donne intervistate mi hanno raccontato che il pane di mais,"u pani ri migghiu" era buono appena cotto, ma il giorno dopo diventava secco, duro e stopposo. Per chi ha sperimentato la fame, questo ricordo rattrista molto, e le donne intervistate quasi non volevano che ne parlassimo. Il ricordo della carestia e della povertà a causa della guerra era ancora molto presente nella loro vita e il desiderio era quello di dimenticare.
La stessa cosa valeva per il pane nero che adesso chiamiamo integrale, (ma integrale lo era allora) anche a me da piccola - lo confesso - potendo scegliere, mi piaceva quello bianco di farina 00, "ri fjuri". Mangiare il pane nero significava essere contadini e cittadini di seconda classe, voleva dire appartenere a un ceto inferiore, questo non mi piaceva e mi rattristava molto, per cui il mio sogno era mangiare sempre pane bianco.
Da sempre il pane è stato l'alimento che ha sfamato gli uomini, le varietà di farine di questo prezioso alimento sono tantissime. Si può dire che ogni nazione, regione, e persino paese ha il suo pane tipico, e proprio perché ci sono tanti tipi di pane il prezzo è molto elevato soprattutto nelle grandi città.
La tecnologia è venuta incontro anche alle giovani coppie che lavorano tutto il giorno fuori casa, infatti in commercio si trova addirittura una macchina che fa tutto da sola, basta mettere gli ingredienti, programmarla, e all'ora stabilita tutta la famiglia può godere della fragranza e della bontà del pane appena sfornato. Peccato che io e mia figlia ci abbiamo provato a utilizzarla ma con scarsi e insapori risultati.
"Una fetta di pane non la si nega a nessuno" dicevano sempre gli anziani del paese, e per questo mi fa molto male quando a volte passo davanti le mense scolastiche e vedo sacchi colmi di pane avanzato: sicuramente andrà buttato, mentre ancora oggi nel mondo ci sono persone che muoiono a causa della mancanza del pane e fanno ancora guerre, come ricorda Predrag Matvejevic in "Pane Nostro". In questi giorni i vari telegiornali ce lo ricordano, basti pensare a ciò che sta succedendo alle popolazioni del nord Africa.
Per non dimenticare le bellissime sensazioni e i ricordi della mia infanzia, ogni tanto ho bisogno di fare il pane in casa anche io. Certo non è la stessa cosa ma mi arrangio con i mezzi che ho a disposizione: non ho il lievito madre ma uso il lievito di birra e il forno è quello elettrico della cucina. Ho bisogno di percepire quella sensazione tattile che dicevo prima, mi piace sentire la pasta che respira e si gonfia sotto le mie mani che la impastano, ho bisogno di quel calore e di sentire quella forza che evidentemente mi trasmette. Il profumo che scaturisce dalla cottura e che invade la casa avvolgendo ogni cosa mi inebria e mi riempie di gioia.
Con molto piacere condivido con voi la mia ricetta del pane. Gli ingredienti per mezzo kg di farina sono: 20 g di lievito di birra, 250 cl di acqua tiepida, 10 g di zucchero, 10 g di sale. Sciolgo il lievito in un po' d'acqua con lo zucchero e impasto fino a che tutto diventa liscio e omogeneo. Faccio una palla e la ungo con l'olio per non farla seccare, prima di coprire con un strofinaccio faccio il segno di croce e aspetto che lieviti per 20 minuti. Poi rimpasto e lascio lievitare per 1ora e mezza. Intanto che preparo i panini scaldo il forno a 200°, li dispongo sulla griglia con la carta forno e faccio cuocere per 20 minuti. Lo stesso impasto lo uso anche per fare la pizza.
Senz'altro sarà per nostalgia di certi sapori/odori che racconto questa storia e non certo perché voglio dire che si stava meglio prima, anzi! Ma raccontare il passato serve soprattutto a me. Ricordare persone, riti e gesti semplici che mi hanno aiutato a crescere, affascinato (tra il sacro e il profano) credo sia un'eredità di inestimabile valore che ho condiviso con le persone amate, e come dice Enzo Bianchi nel suo libro "Il Pane di Ieri", mi sento in debito con le persone che mi hanno fornito questi insegnamenti, per questo mi piace lasciare, perché no, magari, una piccola traccia alle generazioni future.
Per rendere omaggio alla città che mi ospita, mi preme segnalare una piccola curiosità: in milanese il panettiere è il prestinèè, parola italianizzata che equivale al prestinaio, e il pane meneghino per eccellenza è la michetta (panino tondo, vuoto all'interno, di 60 grammi circa).
Libri e ricette sul pane ce ne sono tantissimi e si possono trovare tranquillamente su internet, ma due libri mi permetto di segnalare: il primo perché racconta tutta la storia del viaggio che percorre il seme fino a diventare pane: "Pane Nostro" di Predrag Matvejevic, Garzanti Editore 2010; e "Il pane di ieri", Einaudi 2010, di Enzo Bianchi, priore e fondatore della Comunità di Bose. Pur non conoscendoli sento di doverli ringraziare poiché mi hanno ispirato nel ricordare il Sacro rito del pane.
Un ringraziamento speciale a mia figlia Barbara a cui ho trasmesso il piacere di fare il pane, di studiarne la tradizione approfondendo nuove vie, a lei devo molto perché mi sprona a scrivere, a ricordare e a condividere.