Alcuni veri e propri pervertimenti semantici e concettuali affliggono il dibattito mediatico e parlamentare sul testamento biologico, così come alcuni nonsense sono presenti nel disegno di legge in discussione. Primo tra tutti: perché dovrei redigere un testamento biologico, o qualsiasi altro documento attestante il mio volere, se la mia volontà non sarà poi vincolante per il medico? Perché dopo cinque anni - e ogni cinque anni - dovrei rinnovare le mie volontà? Una normativa sul testamento biologico potrebbe essere considerata come una estensione temporale del consenso informato, secondo cui nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza che abbia ricevuto tutte le informazioni e senza che abbia fornito il consenso. Ma il testo Calabrò tratta i cittadini aprioristicamente come incapaci di intendere e di volere, privandoli della libertà di decidere oggi per un futuro in cui non potranno difendere i propri diritti, e intacca profondamente il principio del consenso informato. La storia del signor Bruno è un caso esemplare della contiguità tra consenso informato e testamento biologico. Nel dicembre 2006 deve sottoporsi a un delicato e rischioso intervento chirurgico. È consapevole del rischio, è stato informato del possibile esito infausto, contestuale o conseguente all'intervento. Bruno ha sottoscritto il consenso informato solo a condizione di inserire una clausola. Seguendo le indicazioni del comitato etico dell'ospedale San Martino di Genova, Bruno ha esplicitato le proprie volontà qualora in futuro non potesse più farlo. In caso di stato vegetativo persistente o altra grave inabilità, ha detto, rifiuto ogni forma di accanimento terapeutico (comprese idratazione e alimentazione artificiali) e rifiuto qualsiasi cura inefficace per la guarigione, come la rianimazione. Come il signor Bruno ogni cittadino dovrebbe poter decidere sui trattamenti che desidera ricevere in futuro, comprese la nutrizione e l'idratazione artificiali.
Il dibattito più bizzarro e inutile degli ultimi decenni è proprio quello riguardante la nutrizione e l'idratazione artificiali, o meglio il loro statuto: trattamento sanitario o mera assistenza? Bizzarro perché coloro che strepitano per il carattere assistenziale sembrano ignorare del tutto di cosa stiano parlando. Basti ricordare che l'avvio della nutrizione artificiale richiede un consenso informato, in cui si informa il paziente o un congiunto dei rischi. La dichiarazione si chiude con l'espressione del consenso alla effettuazione del trattamento sanitario indicato. La nutrizione artificiale, poi, richiede una attenzione nella gestione molto diversa da quella necessaria per cucinare e servire un pasto, anche il più complicato che si possa immaginare. Dalla premura per la sterilità degli strumenti usati (aghi, rubinetti, guanti), alla necessità di effettuare regolarmente le analisi del sangue. Chi non ha un sondino nasogastrico subisce un intervento chirurgico per inserire un port a cath, una valvola attraverso cui far passare la nutrizione; oppure per eseguire una gastrostomia endoscopica percutanea, ovvero un buco nell'addome. Insomma è difficile non considerare tutto questo come un atto medico. Tuttavia il disegno di legge in discussione è esplicito nel definire nutrizione e idratazione artificiali come sostegno vitale e, implicazione gravissima, nel sottrarle alla nostra decisione: «Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». Questo significa che finché siamo coscienti possiamo rifiutarci; appena non siamo più in grado di invocare un nostro diritto fondamentale qualcuno ci farà un buco o ci infilerà un sondino nel naso per nutrirci - anche se abbiamo espresso volontà contrarie.
Non è possibile chiamare alleanza terapeutica una condizione in cui il medico decide e il paziente subisce: più corretto sarebbe chiamarla paternalismo. Un paternalismo celato e mascherato da altruismo e che svuota la nostra autodeterminazione lasciando intatto solo un involucro esterno. Il testo Calabrò non è solo un disegno di legge che mantiene meramente il nome di «dichiarazioni anticipate», mentre le umilia e le schiaccia sotto il macigno della coercizione; ma contraddice il principio sacrosanto secondo il quale ognuno di noi dovrebbe poter decidere circa la propria esistenza - morte compresa.
Ove non c'è scelta non esiste morale. Kant ha fornito una immagine efficace per descrivere lo spessore morale degli uomini se fossero privati della propria autodeterminazione: la libertà del girarrosto. Insensato discutere se il pollastro infilzato nello spiedo si stia comportando moralmente o immoralmente.
Ogni decisione che riguarda la nostra salute non è soltanto medica, ma coinvolge i nostri valori, ciò che crediamo importante, la nostra stessa idea di esistenza. Nessuno può ergersi a detentore della Verità. Questo è il tanto vituperato relativismo morale: l'idea che ognuno di noi possa avere preferenze diverse; la convinzione che se queste preferenze non danneggiano nessun altro dovrebbero essere rispettate e garantite. La libertà ha anche un ulteriore vantaggio rispetto alla coercizione: permette anche di rinunciarvi, o di delegarla. Se siamo liberi possiamo scegliere di far decidere qualcuno al posto nostro, o di sottrarci alle decisioni. Se invece siamo obbligati a percorrere una unica strada non possiamo che piegare il capo, trasformati in simulacri umani. Siamo costretti a subire la decisione di altri; un punto di vista, legittimo se valido per sé, viene trasformato in Verità Assoluta, in Dogma e come tale somministrato anche a chi la pensa diversamente.
La vera libertà di coscienza è quella che ognuno di noi dovrebbe esercitare in presenza di una legge rispettosa e liberale. Non quella che è stata invocata per giustificare l'ignavia e l'opportunismo politico. Non prendere posizione rispetto alla legge in discussione è un atto gravissimo. Non prendere posizione contro una ingiustizia non è moralmente neutrale e privo di conseguenza, bensì è una precisa scelta e come tale carica di implicazioni. Di fronte ad un attacco alla libertà tanto brutale e ingiustificabile è doveroso opporsi, difendere i diritti dei cittadini, rivendicare la libertà di scelta. Combattere affinché qualcuno non ci trasformi in polli allo spiedo.
Chiara Lalli
* L'autrice è docente di Logica e filosofia della scienza all'università La Sapienza di Roma