ROMA - Li definisce "giudici senza cuore", chiede se hanno mai visto "un bimbo talassemico che muore", racconta di centinaia di donne "costrette ad abortire per non mettere al mondo un figlio destinato a sofferenze gravissime". Simona parla e piange, spiega che in tutti questi mesi ha sofferto, aspettato, sperato che la Consulta accettasse il suo ricorso, e si aprisse così per lei e il marito, portatori sani di anemia mediterranea, la possibilità della diagnosi pre-impianto sull'embrione.
"Invece la legge mi ha condannata a non diventare madre, e ha condannato a morte quegli embrioni, perché io non accetterò mai l'impianto con il rischio di dover abortire di nuovo. Non sono ricca, non posso andare in un centro estero, forse questi giudici, questi politici hanno figli sani, vivono felici, e così non si curano della sofferenza altrui".
Abita in una frazione di Cagliari Simona, in una grande casa, con la madre anziana e il marito Pietro. "Qui ho sognato tante volte di arredare la cameretta del mio bambino, in questa casa dove sono cresciuta insieme ai miei nove fratelli e sorelle, anche alcuni di loro sono portatori di talassemia, ma hanno incontrato mariti e mogli sani, e quindi i loro figli, i miei nipoti, stanno bene. Quando mi sono fidanzata con Pietro sapevamo entrambi di avere il "problema", ma dovevamo per questo rinunciare all'amore?". No, Simona e Pietro non hanno rinunciato, del resto l'anemia mediterranea è tuttora una piaga endemica in Sardegna, ma la loro ricerca di un figlio si è rivelata un calvario. "Prima del 2004, prima che questa terribile legge venisse approvata, moltissime coppie sono riuscite ad avere bambini sani con la diagnosi pre-impianto, ma quando anche io ho deciso di rivolgermi all'ospedale microcitemico di Cagliari era troppo tardi".
La legge 40 è già in vigore, ma Simona decide di tentare lo stesso, e alla fine del 2004 si sottopone ad una fecondazione assistita (ha infatti anche difficoltà a restare incinta naturalmente) nel reparto del professor Giovanni Monni, primario ginecologo dell'ospedale microcitemico. "Non potendo più né congelarli né analizzarli - ricorda Simona - tutti e tre gli embrioni mi sono stati impiantati. Sono rimasta incinta e avevo il cuore pieno di speranza, per dieci settimane Pietro ed io abbiamo sognato quel bambino... Alla decima settimana ho fatto la villocentesi, e la risposta mi ha spezzato il cuore: il mio bambino era malato, anemia mediterranea, sapete che cos'è, è una malattia del sangue che costringe a trasfusioni continue, fin da piccolissimi, per tutta la vita. No, di bimbi così ne ho visti troppi. Ho abortito, ed è stata l'esperienza peggiore della mia vita".
Simona fa fatica a parlare. Spesso piange, interrompe la conversazione, poi la riprende. Da molti mesi ha smesso di lavorare per assistere la mamma anziana, e perché, spiega, "dopo il secondo tentativo sono entrata in una depressione gravissima". Sì, perché nonostante il grande dolore della prima volta, nel 2005, alla vigilia del referendum, Simona fa una nuova fecondazione assistita, ma al momento di trasferire gli embrioni nell'utero, sapendo di non poterli analizzare, crolla, e dice no, non posso affrontare il rischio di un nuovo aborto.
Simona cioè "disobbedisce" alla legge 40, e ciò che ne segue è un caso politico e legale che si è concluso con il "no" della Consulta. "Sono piena di rabbia e di tristezza. Però voglio reagire, Pietro ed io ci amiamo, la nostra coppia è salda. Magari possiamo tentare all'estero: i soldi per adesso non li abbiamo, ma forse chissà, un prestito, un aiuto. Io non rinuncio alla speranza".